evoluzione del consulente finanziario negli ultimi 17 anni
Correva il mese di luglio del 2001 e realizzai, con un mio affezionato cliente, il primo monitoraggio sui consulenti finanziari (allora promotori finanziari), dopo solo due mesi, ci sarebbero stati i più gravi attentati terroristici dell’età contemporanea era l’11 settembre 2001.
Da allora il mondo non sarebbe stato più lo stesso e i mercati pure.
Un dato su tutti: prima dell’attacco alle torri gemelle gli italiani che investivano i propri risparmi, foss’anche in titoli di stato, erano uno su due (il 50%) oggi a distanza di 17 anni uno su quattro (il 25%).
E i consulenti finanziari che ruolo hanno avuto in questo nuovo mondo? Un ruolo da paladini del risparmio gestito: mentre altri vendevano titoli tossici o obbligazioni bancarie non quotate, i consulenti finanziari, proponevano i fondi comuni di investimento, la forma più evoluta, democratica e sana per gestire i risparmi.
Gli italiani nel 2001 erano già passati attraverso le malefatte del Banco Ambrosiano Veneto di Roberto Calvi connesso con Michele Sindona, della Parmalat di Callisto Tanzi, della Cirio di Sergio Cragnotti, della Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, solo per citare i casi più eclatanti di casa nostra.
Ma il peggio doveva ancora arrivare: il fallimento della Lehman Brother di Richard Fuld, il salvataggio di MPS, delle banche venete e da ultimo la Carige. Ma quanti Zonin e Berneschi sono ancora a piede libero e in giro a fare danni e nessuno lo sa?
Tutti questi episodi, tradendo il risparmio degli italiani – la prima delle ricchezze del nostro Paese – hanno alimentato quella crisi di fiducia verso le banche i cui effetti sono ancora tutti da scoprire.
E in questo ambiente i consulenti finanziari come hanno potuto sopravvivere? Prima bistrattati, considerati dei piazzisti, stigmatizzati perché guadagnano a provvigione, poi improvvisamente considerati i salvatori di quegli stessi gruppi bancari, che senza il loro apporto fondamentale, sarebbero implosi su sé stessi.
È vero, il consulente finanziario è un imprenditore, che rispetto ad altre categorie professionali non ha uno stipendio fisso e non può contare – se non in minima parte – sulle garanzie e sui diritti lavorativi acquisiti da altre categorie professionali.
Ma il tempo si sa è signore e oggi, crollate le rendite di posizione, le altre figure professionali hanno dimostrato la loro inefficienza e la loro inutilità, e spesso sono considerate esuberi di un settore che non ha saputo cogliere e cavalcare il cambiamento.
Quale è oggi lo stato di salute delle reti e dei consulenti finanziari? Partiamo dai dati dell’industria del risparmio gestito che, secondo le ultime rilevazioni ASSOGESTIONI, deve fare i conti con un crollo della raccolta netta complessiva di oltre il 90% (8,8 miliardi tra gennaio e novembre 2018, contro i 97,4 miliardi del 2017), e con una conseguente ricaduta del patrimonio complessivo del settore che registra un secco meno 3% delle masse passando dai 2.089 miliardi del 2017 agli attuali 2.020 miliardi.
A far soffrire il risparmio gestito sono soprattutto le banche tradizionali che scontano la difficoltà o (forse) la minor volontà di offrire consulenza finanziaria ai propri clienti in fasi di mercato avverse e (forse) preferiscono che gli stessi tengano la liquidità sui conti o su altri prodotti.
Di contro spicca, il dato positivo di ASSORETI: le masse complessive gestite e amministrate dalle reti dei consulenti finanziari sono cresciute quasi di un sonoro più 3% tra dicembre 2017 e gli ultimi mesi del 2018 (di cui ben il + 1,5% di risparmio gestito) passando dai complessivi 518,5 miliardi del 2017 agli oltre 532 miliardi del 2018.
La tenuta del modello delle reti sul risparmio gestito – la forma più evoluta di investimento – confermando la netta vittoria registrata dal modello delle reti finanziarie su altri canali ha oltretutto radici lontane. Partiamo dal numero dei clienti gestiti dai consulenti finanziari, passati in un decennio da poco meno di tre milioni agli attuali quattro milioni e duecento mila con un aumento del 50%.
Analizziamo poi il portafoglio medio dei Consulenti Finanziari, letteralmente raddoppiato (+100%) negli ultimi cinque anni grazie all’allargamento non solo della loro base clienti ma anche della tipologia degli stessi, riuscendo ad intercettare i segmenti finanziariamente più consistenti.
I consulenti finanziari sono infatti partiti sostanzialmente dagli “affluent” o “upper affluent” (individui cioè con risorse finanziarie ben inferiori ai cinquecentomila Euro) per approdare – oggi a tutto titolo – anche ai clienti “private” (individui cioè con risorse finanziarie oltre i cinquecentomila Euro) e ai clienti HNWI (individui cioè con risorse finanziarie oltre i quattro milioni di Euro).
Dati alla mano, dei circa 800 miliardi di Euro di AUM riconducibili ai clienti private italiani di chiarati da AIPB oltre 300 miliardi (poco meno del 40%) sono in capo alle reti dei consulenti finanziari (dati ASSORETI).
C’è da giurarci che la corsa non sia ancora finita e che nuovi pubblici si rivolgeranno ai CF come, ad esempio, quegli imprenditori italiani, titolari di piccole e medie imprese che costituiscono oggi oltre l’80% del tessuto economico italiano.
Le piccole e medie imprese italiane rappresentano quasi certamente la tipologia di clientela più complessa, ma anche quella a maggior potenziale inespresso in ragione della loro competitività sul mercato e del numero di addetti impiegati e – non ultimo – anche il maggior valore per l’economia reale italiana.
La maggior parte delle banche tradizionali – ovviamente con le dovute eccezioni – ha sempre puntato prevalentemente sulle grandi aziende o sui grandi gruppi, magari legati ai buoni salotti della finanza nazionale, snobbando le piccole aziende, il risultato? Miliardi di Euro di crediti deteriorati (NPL) che stanno affossando il sistema bancario italiano, con conseguenze disastrose per le casse delle Stato e quindi per le tasche dei contribuenti italiani.
Gestire un imprenditore richiede più tempo, grande pazienza, grandi doti empatiche e capacità di ascolto, conoscenza del territorio dove opera, unite a flessibilità di orari e disponibilità di tempo e di energie.
Ma chi meglio del CF è in grado di garantire queste doti che sono da sempre i suoi migliori asset?
La storia e l’evoluzione del CF va analizzata anche da un altro punto di vista: la sua relazione con la mandante. Questa relazione non rivela infatti solo la genesi del successo della figura del consulente finanziario ma anche un rapporto, a volte conflittuale a volte di forte vicinanza, che caratterizza tipicamente anche i migliori e più duraturi matrimoni.
Partiamo analizzando la soddisfazione dei consulenti finanziari verso la propria mandante, che da livelli appena sufficienti nel lontano 2001, quando solo un consulente su quattro si definiva completamente soddisfatto, ha raggiunto il massimo nel 2015, quindi è scesa negli ultimi due anni e riprende quota nell’anno appena trascorso, il 2018, sicuramente il più complesso nell’ultimo decennio.
La soddisfazione verso la mandante risulta naturalmente correlata all’attenzione e l’impegno della stessa nei confronti dei CF: cosa significa concretamente questa capacità? Fare sentire il CF al centro del proprio modello di business, investire su di lui per formarlo, mantenerlo aggiornato sulle novità del mercato, dotarlo dei supporti più adeguati a esercitare al meglio la sua professione.
Altri elementi fondamentali sono i supporti di comunicazione e marketing cioè l’insieme degli strumenti che la mandante mette a disposizione dei CF per supportarne il lavoro con i propri clienti attuali e potenziali.
Questi supporti spaziano dalle grandi campagne di comunicazione, dove è bene che oltre a esaltare gli elementi di unicità del marchio della mandante si sottolinei la centralità del consulente finanziario, a campagne di prodotto in e off line che aiutino il CF nella sua proposizione commerciale.
Anche in questo caso siamo partiti dal minimo della soddisfazione dei CF registrato nel 2001 per arrivare al massimo nel 2014 quando molte delle mandanti con quotazioni ormai consolidate in borsa hanno capito che la valorizzazione del loro posizionamento e di quello dei loro CF passa anche attraverso budget significativi (in alcuni casi milionari) in advertising.
Anche da questo punto di vista il 2018 si conferma un altro anno di elevata soddisfazione per i CF dopo tre anni di contrazione: sarà un caso che proprio nell’anno in cui le reti hanno saputo investire in campagne pubblicitarie efficaci la loro raccolta sia stata in controtendenza rispetto alla maggior parte delle banche tradizionali che si sono distinte per un silenzio assordante?
Altro elemento fondamentale è la possibilità dei CF di interagire con la Direzione della rete. Le reti di maggior successo sono guidate da grandi comunicatori che hanno fatto della loro vicinanza e della loro interazione con i CF il loro mantra.
Quando parliamo di possibilità di interagire con la direzione ci riferiamo a convention o a incontri sul territorio continuativi, volti non tanto a mettere pressione sui budget, quanto a fare sentire i CF protagonisti e parte di una squadra unita e vincente, condividendo con loro gli obiettivi strategici della mandante.
Anche da questo punto di vista il 2018 è stato l’anno in cui si è toccata la massima soddisfazione dei CF rispetto alla loro mandante, sarà un caso? Stupisce vedere come questi principi così banali e intuitivi siano a volte più o meno inconsciamente disattesi in settori limitrofi.
E che dire delle operation (operazioni di back office, tempi di apertura contratti, gestione ordini dei clienti)? Immaginiamo che il CF sia un pilota di Formula 1, ebbene le operation sono la sua macchina, senza la quale anche il miglior fuori classe difficilmente riesce a salire sul podio.
La soddisfazione per le operation – contrariamente ad altri fattori – è partita nel 2001 da livelli molto alti: non dimentichiamo che il CF da sempre abituato a operare fuori sede è stato adeguatamente supportato dalla propria mandante.
Negli anni il grado di soddisfazione è stato piuttosto altalenante e soprattutto non è stato omogeneo tra le diverse reti: quelle tra le reti non dotate di una “macchina” concepita ad hoc per il CF hanno sofferto e stanno soffrendo molto, proprio nel momento più delicato dove il gap tecnologico e i tempi di esecuzione con gli altri canali (la banca tradizionale in primis) fa la vera differenza.
La soddisfazione per le operation ha avuto negli anni un andamento simile a quello della digitalizzazione delle procedure e l’utilizzo del web al posto della carta. Continuando ad usare la metafora della Formula 1, se le operation sono la macchina, il digitale è la centralina elettronica senza la quale la macchina non parte.
L’andamento della soddisfazione di questo fattore parte da livelli molto bassi nel 2001 per toccare il massimo quattro anni dopo, ridiscendere e risalire in media ogni tre anni: la tecnologia va continuamente rinnovata, quello che va bene oggi tra tre anni è già obsoleto.
Infatti le reti che performano meglio su questo aspetto sono quelle più dinamiche che ottimizzano in modo continuativo i processi e gli strumenti digitali sia software (dalla firma digitale alle App, dal sito, agli applicativi per i clienti e i CF) che hardware (Smartphone di ultima generazione, riconoscimento facciale, vocale …).
E che dire degli aspetti retributivi e dei piani di fidelizzazione?
Come qualsiasi imprenditore il CF è artefice dei propri guadagni, se lavora bene ed è apprezzato dai propri clienti guadagna altrettanto bene, viceversa potrebbe fare fatica ad arrivare a fine mese, e d’altronde sappiamo, che in questo senso una selezione naturale è già in atto e non da oggi.
Il CF è un imprenditore che ha nella mandante il suo socio di maggioranza con cui condividere spese e ricavi. Ebbene l’andamento della soddisfazione sugli aspetti retributivi è in linea con la storia ed il successo crescente delle reti: parte piuttosto basso nel 2001, tocca il minimo nel 2009, complice la crisi del 2008, e dal 2012 riprende a salire fino al 2015 (massimo storico) per assestarsi nel 2018.
I valori di soddisfazione sul proprio sistema retributivo non sono esaltanti, ma questo è insito nel genere umano: quasi tutti desiderano guadagnare di più e molti tendono – soprattutto nei lavori di front office e commerciali – a sopravvalutare le proprie capacità individuali, non foss’altro perché l’auto motivazione è un ingrediente necessario per questo tipo di lavoro.
In realtà l’aspetto retributivo va analizzato nelle sue differenti componenti: management fee, front fee, contest monetari, contest non monetari, piani di fidelizzazione e altri fringe benefit.
Su questi aspetti vi è una certa differenza tra le mandanti e di conseguenza i livelli di soddisfazione variano certamente in base all’entità del portafoglio del singolo CF ma dipendono anche dalla mandante per cui il CF lavora. Ci sono infatti mandanti più munifiche, altre meno, alcune più generose nel management fee, altre più sul front fee, altre che hanno piani di fidelizzazione molto importanti, altre meno.
La soddisfazione si sa è anche correlata con la fedeltà alla propria mandante e con la disponibilità a farsi promotori della stessa presso colleghi che lavorano in un’altra rete.
I livelli di fedeltà sono in crescita, mentre si riduce l’intensità della promozione della propria rete preso i colleghi che lavorano in altre realtà, sia perché non tutti i CF sono dei bravi reclutatori, sia perché probabilmente si sa che oggi di proposte irrinunciabili ce ne sono poche.
Il turnover che ha caratterizzato il recente passato è stato spesso il frutto di ingaggi imbarazzanti (si è arrivati in alcuni casi ad offrire il 6% del valore del portafoglio) oggi decisamente insostenibili.
Inoltre Il CF ha mediamente 54 anni, è un professionista appagato, ha una base di clienti consolidata che gli consente una giusta remunerazione, quindi, senza arrivare a scrivere che “dorme sugli allori”, si può dire che oggi è certamente meno motivato a cambiare mandante rispetto ai suoi esordi.
Anche gli stili di lavoro dei CF rispetto al passato sono cambiati: immaginiamo una squadra di calcio, dove abbiamo gli attaccanti, i centrocampisti e i difensori. Oltre 40 variabili comportamentali e attitudinali hanno costituito la base per una segmentazione dei CF secondo una cluster analisi che ha dato origine a queste tre tipologie di professionisti.
Volendo sintetizzare, gli attaccanti sono più attratti dai clienti potenziali, soffrono un po’ la sindrome da battitore libero e hanno una forte consapevolezza delle proprie capacità.
I difensori, viceversa, sono più concentrati sui clienti attuali, sono meno proattivi, ma hanno una miglior capacità di lavorare in team.
I centrocampisti rappresentano il ruolo più allineato alla mandante di cui spesso ne rappresentano bene la filosofia e la strategia: focus sui clienti attuali e potenziali, capacità di lavorare in team, soprattutto riconoscono l’importanza del supporto della mandante.
La formazione nel 2001 era per il 90% costituita da attaccanti e per il 10% da centrocampisti, zero difensori. Nel 2018 la formazione in campo è cambiata: 70% di attaccanti, 21% di centrocampisti e 9% di difensori. Si tratta certamente sempre di una squadra all’attacco ma decisamente più bilanciata rispetto a diciassette anni fa.
È naturale che il CF sia oggi più pacificato che in passato avendo raggiunto un buon equilibrio economico e lavorativo, è anche più attento a difendere i risultati raggiunti (propri clienti e posizione acquisita nella mandante) e mediamente più allineato alla mandante.
Molto rilevante nel rapporto mandante-CF è la soddisfazione dei CF sui prodotti di investimento messi a disposizione dalla mandante, considerando l’ampiezza della gamma e le performance intese come rendimenti per i clienti.
L’andamento di questi due indicatori va analizzato singolarmente. Partiamo dalla soddisfazione rispetto all’ampiezza della gamma/alla numerosità dei prodotti: il dato della soddisfazione registrato nel 2018 è sceso significativamente rispetto all’anno precedente e torna ai livelli di dodici anni fa (2005).
E non è un caso: il 2005 è stato l’anno dell’inizio della fase di innamoramento dei CF verso l’architettura aperta e verso le SGR terze, fase che è durata fino all’anno scorso. Nel 2018, certamente complice anche la politica delle mandanti di ridurre il numero di SGR terze, sembra che la passione si sia però notevolmente raffreddata.
Le spiegazioni di questo raffreddamento della relazione sono molte, assuefazione, routine, mancanza di distinzione tra i prodotti delle SGR (nella maggior parte dei casi percepiti come delle commodity), ma la motivazione più rilevante e che sembra aver messo un po’ in crisi questo matrimonio è, come spesso capita, il tradimento.
Perché di tradimento si deve parlare: quando i mercati andavano bene, tutti erano bravi, tutti erano felici, giravano tanti soldi, i clienti erano contenti, le SGR e i distributori pure. Ma ai primi storni del mercato (e tutti sappiamo quanti ce ne sono stati nel 2018) si è scoperto che in finanza di maghi ne esistono pochi e molti hanno deluso le aspettative, un po’ ingenue, anche dei CF più esperti.
Il dato di soddisfazione sulle performance dei prodotti ovverosia sui rendimenti dei prodotti per i clienti è infatti letteralmente crollato rispetto all’anno scorso, toccando – per altro – il minimo storico dal 2001 ad oggi.
Molti autorevoli opinionisti e studiosi del mercato, dicono che il rendimento non è tutto, che il cliente non deve guardare ai mercati ma ai suoi progetti di vita e che il CF deve essere la sua guida e il suo freno rispetto ad atteggiamenti di euforia o panico che storicamente lo portano ad entrare nei mercati ai massimi e a uscire ai minimi.
Sempre gli stessi studiosi ci dicono che anche i grandi gestori cadono in questa trappola. Ebbene forse non è un male se dopo anni di sbornia ritorni un po’ di lucidità, prudenza e soprattutto la consapevolezza che l’orizzonte temporale, il profilo di rischio e i costi (impliciti) connessi agli investimenti sono elementi da tenere in seria considerazione sempre e non solo quando i mercati girano le spalle.
Gli studi che da anni conduco sulle SGR, sulle reti dei CF, dei PB, dei gestori bancari e sugli investitori finali ci dicono che la qualità del servizio, inteso come capacità di ascolto, di offrire consulenza, visione e di vicinanza ai CF da parte delle SGR e ai clienti da parte dei CF sono fondamentali, ma non dimentichiamo che chi investe i suoi soldi lo fa per proteggerli o per aumentarne il valore nel tempo.
Quando ci rechiamo da un concessionario per comprare un’auto o da un sarto per farci confezionare un abito la loro cortesia, preparazione, disponibilità e competenza sono fondamentali. Ma se usciti dal concessionario la macchina si ferma e l’abito si strappa il rapporto di fiducia svanisce come neve al sole.
Anche nel nostro caso i migliori CF che hanno avuto la capacità di educare per tempo i propri clienti sui rischi connessi a un investimento in borsa, che hanno saputo diversificare i loro investimenti, che sono stati chiari sull’orizzonte temporale e anche – sui costi impliciti ed espliciti – soffriranno molto meno di chi ha fatto promesse fallaci – anche in buona fede – cadendo nelle stesse trappole emotive dei loro clienti.
Il 2019 sarà un anno complesso con molte nubi all’orizzonte, derivanti dalle sorprese che molti clienti avranno dalla esplicitazione dei costi, da una volatilità che non accennerà a diminuire e dal desiderio di molti risparmiatori di fare un passo indietro, disinvestendo e facendo lievitare ancor più la mostruosa cifra di mille miliardi e seicento milioni che giace oggi sui conti correnti.
Ma è proprio quando il gioco si fa duro che i migliori CF sapranno emergere. E sarà come di fronte al diluvio universale, mentre i più sottovaluteranno le circostanze attrezzandosi con semplici ombrelli, i migliori CF avranno già messo in salvo i loro clienti proprio come fece Noè con la sua Arca.
Nicola Ronchetti