scendono in campo gli investimenti illiquidi
Quando la temperatura scende sottozero di norma l’uomo corre ai ripari. Idem in finanza, dove i tassi sottozero hanno fatto (ri)scoprire gli investimenti illiquidi oggi proposti anche al grande pubblico dei piccoli risparmiatori italiani.
Il mantra di chi promuove questo tipo di investimento è “economia reale”, meglio ancora se nazional popolare: è molto affascinante investire in azioni di aziende italiane non quotate ancor di più in infrastrutture per lo sviluppo del nostro Paese.
Nella proposizione commerciale di questi prodotti si parla molto di rendimenti in grado di raddoppiare il valore del capitale, meno del rischio della perdita di quanto investito.
Il tema del sottostante, ovvero delle aziende in cui investire, viene affrontato marginalmente pur nella sua criticità. È vero che esistono centinaia di migliaia di aziende, alcune vere e proprie eccellenze, ma solo pochissime intendono aprire il proprio capitale a terzi e tra quelle che lo fanno poche rappresentano un buon investimento (si pensi a Parmalat e più recentemente a Bio-on).
Quanti tra i professionisti – consulenti finanziari o private banker – conoscono e si sentono fiduciosi di proporre questo tipo di investimenti ai loro clienti? Il 34% dei CF e PB dichiara di conoscere bene questo tipo di investimenti e la metà di costoro (pari al 17% del totale) si sente fiducioso e preparato per proporli oggi ai propri clienti (fonti FINER® CF Explorer e FINER® PB Explorer, 5.173 interviste a CF e PB)
Le barriere sono soprattutto la mancata conoscenza (66%), il fatto che richiedano – per i più – un orizzonte temporale di almeno dieci anni (57%) e che quindi non siano strumenti per tutti i clienti, sia in ragione della loro illiquidità che della quota a loro destinata, che concordi quasi tutti (85%) deve oscillare tra l’1% e il 5% massimo del portafoglio complessivo del singolo cliente.
Quanto alla soglia di accesso a questo tipo di investimenti, la maggior parte degli intervistati (78%) concorda nel ritenere che la somma minima debba stare in un intorno di centomila Euro, il che limiterebbe questo tipo di investimenti ad una clientela private e HNWI. Ma c’è anche chi ritiene (22%) che si possa prevedere un ticket di ingresso compreso tra venti e trentamila Euro, consentendo quindi l’accesso a questa asset class anche ai cosiddetti clienti affluent e upper affluent.
E quanti e quali clienti sarebbero interessati ad investire parte del loro patrimonio in prodotti per i quali sussistono difficoltà di smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole (estratto dalla Comunicazione CONSOB n. 9019104 del 2 marzo 2009)? L’interesse a investire in aziende italiane è alto (54%) ma spesso associato ad aziende di grandi dimensioni già molto affermate (ad esempio Barilla, Ferrero) o quotate (ad esempio Ferrari, Brembo).
“Lascia o raddoppia”: l’interesse a immobilizzare per 8-10 anni una quota del proprio patrimonio a fronte della possibilità di raddoppiare il proprio investimento o al rischio di perderlo interamente – è maggiore presso gli HNWI (17% molto interessati) rispetto al resto della popolazione degli investitori italiani (6%). In entrambi i casi la parte del proprio patrimonio destinata ai prodotti illiquidi non arriverebbe all’2% per gli HNWI e al 1% dei clienti affluent (fonte FINER® Finance Mirror, 5.200 interviste a investitori finali).
È più che encomiabile lo sforzo che l’industria del risparmio gestito sta compiendo per creare vale aggiunto per i propri clienti e per l’economia reale, a condizione che si segua l’antico adagio: patti chiari e amicizia lunga. Viceversa ben vengano i nostri titoli di stato: cosa c’è infatti di più reale che pagare – ad esempio – lo stipendio alle nostre forze dell’ordine e ai nostri medici.