PIR e illiquidi per ricostruire il tessuto imprenditoriale.
Investire | Marzo 2020
Correva il 2017 e nascevano i Piani Individuali di Risparmio (PIR), con l’obiettivo di convertire l’enorme stock di risparmio degli italiani a sostegno dell’economia reale costituita dalle piccole medie imprese italiane (PMI) che in Italia sono quasi 6 milioni.
Per rendere il piatto ancora più ghiotto si introduceva la detassazione totale sui rendimenti derivanti da capital gains e dividendi relativi ai PIR, a condizione che l’investimento non fosse liquidato prima di 5 anni.
Il mercato coglie l’opportunità e avvia un imponente lavoro di raccolta usando le reti e gli asset manager. Il livello di conoscenza dei PIR da parte dei risparmiatori italiani cresce passando dal 29% di giugno 2017 al 52% di gennaio 2018, la raccolta raggiunge 20 miliardi e si stimano 50 miliardi nel giro di tre anni.
Tecnicamente lo strumento scelto per la raccolta è l’Organismo di Investimento Collettivo in Valori Mobiliari (OICVM). Un fondo che deve investire almeno il 90% delle risorse in borsa e mercati regolamentati, cioè in prodotti cosiddetti liquidi. Risultato: dei quasi 20 miliardi raccolti la stragrande maggioranza sono stati investiti in titoli esteri quotati su mercati internazionali, sul debt capital market, in titoli sovrani e prodotti misti non collegati alla economia reale del nostro paese.
Da qui le limitazioni introdotte un anno fa, che hanno frenato l’avanzata dei PIR: almeno il 3,5% degli investimenti da destinare a società quotate sull’AIM e un altro 3,5% al venture capital. Il 2020 si apre con un nuovo capitolo della saga dei PIR: l’entrata in vigore del DL Fiscale collegato alla legge di bilancio rimuove queste limitazioni, e le sostituisce con un unico obbligo, destinare il 3,5% dell’intero patrimonio in strumenti finanziari di imprese a bassa capitalizzazione e quindi al di fuori dell’indice Ftse Mib e Ftse Mid di Borsa Italiana o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati.
È indubbio che la saga dei PIR e chi l’ha saputa cavalcare e promuovere adeguatamente ha reso più frizzante e vivace l’operatività del nostro mercato finanziario. Qualche numero: dal lancio dei PIR nel 2017 ci sono state quasi 70 IPO che hanno raccolto 2,5 miliardi di Euro, le partecipazioni detenute dai PIR rappresentano oltre il 10% del flottante dell’AIM e poco meno di quello relativo al segmento small cap, il tutto per un controvalore di poco inferiore agli 800 milioni di Euro.
L’economia reale del nostro Paese – quella delle PMI – dunque sembra avere beneficiato solo in parte dalle prime puntate della saga dei PIR, vediamo cosa succederà ora con il cambio di regia e il nuovo copione.
Rimane solo un dubbio di sottofondo. Le motivazioni di chi ha sottoscritto i PIR sono essenzialmente riconducibili a due fattori: 1) l’incentivo fiscale (69% delle citazioni), 2) il contributo all’economia reale del nostro Paese (47%) (fonti: FINER® Finance Mirror).
Sul contributo all’economia reale, rispetto al loro esordio, i PIR non possono più contare su un elemento di unicità: il proliferare dell’offerta di prodotti illiquidi dichiaratamente destinati alla nostra economia reale toglierà indubbiamente ai “nuovi” PIR un po’ di smalto.
Certamente rimane l’incentivo fiscale, e sapendo quanto noi italiani siamo attratti dalla possibilità di non pagare le tasse, questo rimane sicuramente un punto di forza.
La detassazione vincolata alla attesa dei cinque anni ha inoltre un vantaggio sulla cronica fretta degli italiani che normalmente, quando investono, non sanno attendere, vogliono tutto subito, salvo, nella maggior parte dei casi entrare in borsa ai massimi e uscire ai minimi.
Se l’unico driver alla sottoscrizione dovesse rimanere quello dello sconto fiscale sorge una domanda spontanea: ma quando si fa un acquisto ragionato lo si fa solo perché c’è lo sconto o perché si ha bisogno di un prodotto di qualità? Ai posteri l’ardua sentenza.