WeWealth | Aprile 2022
Se non fossimo nel bel mezzo di una tragedia bellica, farebbe sorridere la richiesta inoltrata dal Ministro della cultura russa al suo omologo italiano: rimpatriare velocemente alcune opere prestate a mostre ancora in corso tra Milano e Roma. Sarà successo lo stesso in Francia, con invito a fare tornare alla svelta le meraviglie della collezione Morozov (di ‘origine’ russa e francese) esposte alla Fondation Louis Vuitton, oppure il richiamo urgente coinvolge la sola penisola?
Qualunque sia la risposta, le spade incrociate della diplomazia culturale riaccendono l’antico tormento che accompagna la storia dell’arte e la questione ancora aperta della proprietà delle opere. Non solo quelle acquistate da Sotheby’s o Gagosian, ma anche quelle estorte, derubate, sottratte e trasportate, con variegate legittimazioni politiche e militari e nel tempo lungo della storia degli uomini.
Mai come nei momenti di instabilità geopolitica, l’arte interagisce con il mondo degli asset e dei beni rifugio, privati, aziendali o nazionali che siano: chiuse nelle banche, riparate delle frontiere, protette da pareti vere o metaforiche, le opere parlano di finanza e di possesso. Ma, e mai come oggi, è bene ricordare che i linguaggi dell’arte, se e quando non eterodiretti da logiche di mercato o di potere, poco si curano delle appartenenze, etniche, culturali e politiche; che sono intolleranti agli steccati di ogni tipo e inclini ad attraversare le frontiere nazionali, in cerca di confronto, di tecniche diverse e visioni altre. Gli idiomi dell’arte sono tali proprio in virtù della loro resistenza a ingessature formali e ideologiche. Verrebbe da scippare a Virginia Woolf una sua celebre frase: come le donne, l’arte non conosce patria. E se accende intensi desideri di possesso, non si lascia possedere al di là del suo mero e instabile controvalore finanziario.
La mostra appena conclusa alla Tate Britain, ‘Hogarth and Europe’ illustra felicemente questa congenita intolleranza alle costrizioni di ogni foggia. Qualcuno forse si sarà stupito del titolo – ma come, Hogarth non era forse l’accanito promotore di un’arte nazionale? L’acerbo detrattore delle estetiche continentali? – . È vero, in una fase pittoricamente ancora esitante dell’arte inglese, Hogarth opera per l’emancipazione della cultura visiva e l’affrancarsi dalla subordinazione ai modelli stranieri. Ma le suggestioni giunte da Olanda, Francia e Italia, Hogarth lo sa bene, nutrono l’arte di casa consentendole di uscire dalla subalternità estetica. E nelle sale della Tate, ci si fa sorprendere da The Roast Beef of England (1748), un dipinto letto a lungo come l’allegoria del nazionalismo inglese, accostato in mostra a Il tavolo di cucina (1743) di Jean-Siméon Chardin, per la sensuosità corposa del pezzo di carne e le pieghe sapienti del tovagliolo bianco. Si scopre così che nel mondo precario e inquieto di William Hogarth lavora la pacata raffinatezza cromatica dell’artista francese dal quale infatti l’inglese imparava in silenzio.
Su diversi dipinti, festosi e amorosi in particolare, aleggiano la grazia e certi colori del grande Watteau, ammirato e noto in Inghilterra grazie al medico che veniva a consultare e agli incisori che facevano la spola tra Parigi e Londra. Effluvi di robusto realismo sbarcati dai Paesi Bassi si depositano nell’animata vita popolare di Hogarth, mentre l’artista si mostra anche sensibile ai motivi teatrali di Marco Ricci e Pietro Longhi, chiamati anch’essi a lasciare un loro segno sulle sponde del Tamigi, in particolare nelle ben sei edizioni di A Scene from the Beggar’s Opera (1728-1731). Nonostante i suoi malumori francofobi, la lingua artistica di Hogarth è poliglotta, come a dire che talento e visione raramente si dispiegano nel perimetro conchiuso dei caratteri locali e nazionali. E aggiungere qualcosa: le forme dell’arte hanno l’indole vagabonda e sono inclini a intrecciarsi o scontrarsi con espressività diverse, in una dialettica ininterrotta tra identità e alterità.
Originalissimo interprete e traduttore di linguaggi artistici non autoctoni, Hogarth ha avuto a sua volta una disseminazione sorprendente e vitalissima ‘sul continente’, da ormai due secoli e più. Del ruolo centrale che ebbe per Francisco Goya, è stato detto e scritto, Nell’Italia ottocentesca in cerca di modernità, grazie al celebre ritratto dell’attore David Garrick – le cui incisioni sono ovunque – si insinua una idea nuova del teatro e della recitazione. Che sorpresa poi ritrovare Hogarth al centro del dibattito artistico nella Russia ottocentesca e nelle scene domestiche del pittore Pavel Fedotov! Per non dire dell’attrazione fatale che sentirono per lui diversi espressionisti tedeschi, da Max Beckmann a George Grosz.
Libero viaggiatore nel tempo e nello spazio, Hogarth s’incontra oggi nell’opera del sudafricano William Kentridge e in quelle dell’artista portoghese Paula Rego. Una presenza ubiqua, all’insegna dei linguaggi dell’arte, vivi solo nel segno dell’esplorazione e dello sconfinamento, in tutti i sensi della parola.
Caroline Patey