CONSULENTI: LA FINANZA COMPORTAMENTALE È SOTTOUTILIZZATA

LA RICERCA FINER PER EFPA ITALIA

Il Sole 24 Ore PLUS | Ottobre 2024

La finanza comportamentale è cosa per premi Nobel, ma non per i consulenti finanziari italiani e per i loro clienti. La ricerca realizzata da Finer per il Meeting annuale di Efpa Italia, svoltosi nei giorni scorsi a Firenze, con il tema «WYSIATI. Finanza tra realtà e profezia», mostra infatti che solo il 17 per cento dei clienti e il 66 per cento dei professionisti dice di sapere di cosa si tratta. L’Efpa, organismo professionale preposto alla definizione di standard e alla certificazione dei Financial Advisors e dei Financial Planners, riunisce nel meeting professionisti del risparmio, operatori ed esperti dei servizi di investimento.
La sigla che dà il titolo al Meeting si riferisce all’espressione “What You See Is All There Is”, che si traduce con «tutto ciò che vedi è tutta la realtà». Espressione usata dal premio Nobel Daniel Kahneman, recentemente scomparso, che indica una scorciatoia mentale che ci porta a credere di avere un quadro di riferimento completo sulle questioni su cui decidiamo. E dunque al centro dell’incontro sono le opportunità della finanza comportamentale nel bagaglio conoscitivo di un professionista del risparmio. Nicola Ardente, vice presidente e reggente di Efpa Italia, spiega così la scelta del tema: «Siamo un ente autorevole di certificazione delle competenze dei consulenti finanziari. Abbiamo raggiunto la quota 11.500 certificazioni e questo è un traquardo importante. La finanza comportamentale è uno dei temi fondamentali del bagaglio conoscitivo del consulente. A Firenze abbiamo voluto proporre delle riflessioni per ragionare in maniera ampia rispetto agli impatti della finanza comportamentale sia nei confronti del cliente, sia degli stessi consulenti come operatori, per analizzare i limiti cognitivi che spesso inducono ad avere una visione limitata». Ruggero Bertelli, dell’Università di Siena rilancia: «Lo sguardo basso, rivolto solo a quello che si vede ora, è uno sbaglio. Occorre che i consulenti siano architetti delle scelte dei risparmiatori, spiegando che occorre parlare di investimenti più che di risparmio, che non ha senso parlare di investimenti se non si ha un orizzonte lungo, altrimenti è semplice liquidità». E Giorgio De Rita del Censis, richiamando il titolo dell’evento ricorda che profezia non è una forma della fantasia, ma guardarsi dentro per capire cosa si potrà essere.
Come è però la situazione? «La cosa impressionante che ci ha colpito di più – spiega Nicola Ronchetti, Ceo di Finer – è che nonostante di finanza comportamentale si parli da anni, pochi la conoscono e pochi, sia tra i consulenti finanziari dove abbiamo poco più del 60% che sa di cosa si tratta e addirittura meno del 20% tra gli investitori. Ma la cosa più impressionante è che quei pochi, quelli che la conoscono tra i private bank e i consulenti finanziari, la usano prevalentemente per dialogare con i clienti e non per elaborare per esempio, un portafoglio, fare una asset allocation».
La conoscenza della finanza comportamentale, per quanto riguarda gli investitori, è più diffusa nelle seguenti categorie di soggetti: uomini, boomer, residenti al Nord, istruiti, multibancarizzati, clienti di una rete, con alto patrimonio. Per i professionisti invece sono più “avanti” quelli che hanno delle certificazioni, le donne, i giovani, i residenti al Nord, quelli più istruiti e quelli con portafoglio sopra la media. Secondo lo studio di Finer, inoltre, gli errori cognitivi più diffusi (avversione alle perdite, effetto gregge, inerzia, ancoraggio, eccesso di fiducia, errori di attribuzione) evidenziano differenze significative per genere, età e patrimonio. Per esempio l’avversione alle perdite è l’elemento che registra il maggior numero di riscontri quasi per tutte le età, tranne nella generazione Z (1997-2012) in cui l’effetto gregge supera l’avversione alle perdite e nei millennials (1980-1996) in cui i due valori sono molto vicini. L’eccesso di fiducia non è ai primissimi posti (ma potrebbe essere pure questo un effetto di un eccesso di fiducia, ndr). Passando alla distribuzione di questi bias per consistenza del patrimonio, risulta che il settore mass market è più “deviato” dall’effetto gregge che dall’avversione alle perdite, situazione che si inverte nel caso degli affluent e dei “private-Hnwi”, che effettivamente hanno più da perdere. Queste differenze, secondo Finer, offrono l’opportunità di segmentare in modo pratico e concreto gli investitori attuali e potenziali. E aggiunge Ronchetti: «E questo ha un potenziale enorme anche nella capacità di convertire l’enorme patrimonio liquido che gli italiani hanno ancora e che non investono per la paura di approcciare asset fuori da quelli tradizionali, ovvero l’immobiliare e i titoli di debito pubblico».

Antonio Criscione