L’importanza della capacità di ascolto
Sempre più spesso si parla di empatia o per dirla in inglese di “customer intimacy” come uno dei fattori di successo del modello dei consulenti finanziari rispetto ad altre figure professionali (i gestori bancari) o virtuali (i robo advisor).
Di cosa si tratta? In realtà è una dote vecchia quanto l’uomo: si tratta della capacità di ascolto. Anni fa un Consulente Finanziario di grande successo disse “vedete per fare il nostro lavoro ci vogliono grandi orecchie”, noi rimanemmo sinceramente stupiti, ma con il tempo abbiamo capito che in quella frase c’era tutta l’essenza di una professione.
Ultimamente si parla molto, forse troppo, di MIFID 2, di profilazione del cliente, di personalizzazione dell’offerta, di adeguamento dell’offerta al profilo di rischio, tante belle cose che però non possono e non devono essere relegate solo ad un obbligo di legge o a un modulo o un questionario con risposte pre-codificate.
Capita spesso di incontrare qualcuno che vuole venderci qualcosa (un investimento, un contratto di telefonia o una collaborazione) e non ci riesce, provocandoci un motto di istintivo rifiuto. Per defezione professionale abbiamo analizzato cosa non ci convince e cosa invece ci guidi nella scelta di un fornitore, di un consulente finanziario o di un collaboratore.
La cosa che ci guida è la sensazione bellissima che si avverte quando si capisce che chi vi sta di fronte sappia chi siamo, cosa facciamo nella vita, se siamo sposati, se abbiamo figli, quali sono le nostre passioni i nostri interessi e che lavoro facciamo. Come si fa a sapere chi si ha di fronte? Idealmente si va ad un appuntamento cercando di raccogliere qualche informazione sul proprio interlocutore ma se non si ha il tempo, la voglia o la capacità, basta fare domande e ascoltare.
Una volta un altro Consulente Finanziario che abbiamo avuto modo di conoscere per lavoro, ci ha detto “ho un prodotto giusto per uno come te” e ci ha tenuto inchiodati per venti minuti decantandoci le doti quasi divinatorie del suo prodotto (una polizza unit linked), senza farci una sola domanda su eventuali investimenti sottoscritti, eventuali coperture assicurative, sulla composizione della nostra famiglia, senza chiederci se avessimo in essere un mutuo, un prestito o quali progetti avessimo per noi ed i nostri cari.
È evidente che l’empatia e la relazione che stabiliamo con chi scegliamo per affiancarci nelle nostre scelte di investimento e di vita nascono dallo scambio di opinioni ma soprattutto della conoscenza reciproca. Perché c’è anche questo: il nostro consulente deve sapere tutto di noi ma anche noi vorremmo sapere chi abbiamo di fronte.
Pensiamo che questi principi risalgano ai tempi di Adamo ed Eva ma è impressionante rilevare quanto poco spesso capiti di vederli applicati, o peggio molto spesso di vederli come un obbligo – imposto dalla normativa – o come una perdita di temo e non come un fatto naturale o un’opportunità irrinunciabile per conoscere il proprio cliente.
Consideriamo qualche dato: l’87% degli italiani risparmia, solo il 27% investe i propri risparmi affidandosi ad una banca o a un consulente. Se andiamo a vedere le motivazioni scopriamo che manca la fiducia nella capacità della banca (62%) o del consulente (48%) di “stare dalla mia parte… di fare i miei interessi e di sapere ascoltarmi”.
Questo è un dato che fa riflettere molto. Parliamo di scarsa cultura finanziaria degli italiani, che spesso vengono dileggiati perché non sanno cosa sia l’inflazione o lo spread, ma quanti professionisti del risparmio hanno il desiderio e la capacità di ascoltarli e di affiancarli nelle scelte di investimento e non solo di piazzare loro un prodotto per raggiungere il proprio – rispettabilissimo – tornaconto o budget?
In Italia abbiamo quasi 8 milioni di individui con mezzi finanziari degni di interesse (affluent, upper affluent e private) che lasciano sul conto corrente la cifra monstre di 1000 miliardi di Euro, proviamo ad interrogarci perché non si fidino ad investire, pensiamo al risparmio tradito dalle banche venete e toscane, alle patacche di Cirio e Parmalat, esperienze tutte che sono ancora molto vive nella testa degli italiani.
Ma pensiamo anche a quanti professionisti del risparmio abbiano realmente suonato alla porta di questi italiani con l’obiettivo di ascoltare i loro bisogni e poi di tornare in banca per predisporre con il proprio team un’offerta mirata come fa un qualsiasi altro buon professionista.
O riflettiamo invece di quante volte un cliente entra in una filiale e noi abbiamo già bella pronta un’offerta di un pacchetto (o pacco?) preconfezionato indifferentemente ed a prescindere da chi abbiamo di fronte.
Noi siamo certi che la maggioranza dei professionisti del risparmio – siano essi consulenti finanziari, private banker o gestori bancari – sappiano ascoltare e poi proporre una soluzione (e non viceversa) come testimoniano gli eccellenti livelli di soddisfazione che emergono dalle ricerche che periodicamente realizziamo sui loro clienti.
Tuttavia l’enorme numero di clienti abbandonati a sé stessi o non serviti adeguatamente e che – come conseguenza – scelgono di non gestire i loro risparmi testimoniano in modo inequivocabile che la strada da fare sia ancora molta.
Ci ha molto positivamente colpito ascoltare le parole di Paolo Molesini neo presidente di ASSORETI e banchiere di lungo corso, durante il suo discorso primo discorso pubblico: “la nostra industria non tratta i soldi dei clienti ma la loro fiducia”.
Ebbene la fiducia è un processo ricorsivo che va continuamente rinnovato e che parte dall’ascolto del cliente. Chi ha orecchie per intendere intenda per tutti gli altri consiglieremmo un esame di coscienza oppure di cambiare professione prima che sia il mercato a farlo per loro.
Nicola Ronchetti