Investire | Settembre 2022
Fino a qualche mese fa, gli italiani venivano dileggiati perché pochi di loro sapevano dare una definizione corretta di inflazione.
Oggi probabilmente la situazione non è cambiata, ma gli effetti della inflazione o più precisamente dell’aumento dei prezzi che erode il reddito disponibile, sta toccando gli italiani in una delle loro parti più sensibili: il portafoglio.
È noto che gli italiani, o meglio quasi il 75% di loro, preferiscano tenere i propri risparmi in liquidità sui conti correnti, anziché investirli, proprio per affrontare situazioni impreviste e imprevedibili.
Come quella che stiamo vivendo: non siamo ancora usciti completamente dalla pandemia e dai suoi effetti, ed ecco che scoppia una guerra in Europa, che tra le molte conseguenze nefaste ha un ritorno alla austerity, lontano ricordo degli anni ’70.
Ci aspetta un autunno che, nonostante i drastici cambiamenti climatici, si annuncia freddo non solo per l’uso più oculato che dovremmo – finalmente – fare di gas e più in generale delle fonti energetiche, ma perché abbiamo alle porte una recessione pronta a mordere.
A farne la spesa purtroppo saranno soprattutto i ceti meno abbienti ma anche quella classe media e medio alta (i cosiddetti affluent) che detiene grande parte degli oltre mille settecento miliardi di Euro in liquidità parcheggiata sui conti correnti.
Vi è un altro fenomeno che si acuisce nei momenti di recessione ed è l’abbassamento del livello di fiducia verso le banche nel loro complesso.
La spiegazione di questo fenomeno trova la sua ragione nel ciclo innescato dall’inflazione per fronteggiare la quale quasi sempre le banche centrali alzano i tassi come successo il 7 settembre scorso con l’aumento dei tassi dello 0,75% e l’annuncio di ulteriori aumenti.
Le banche ringraziano, almeno nel breve termine, perché nel medio la recessione che ne consegue e l’aumento del costo del denaro, aumenta la percentuale dei possibili dinieghi di finanziamento a imprese e famiglie bisognose di credito: e questo esporrà le banche a un’ulteriore crisi di fiducia.
Tutto questo premesso, è evidente come, in questo contesto, il lavoro dei consulenti finanziari e in generale dei professionisti della gestione del risparmio si fa ogni giorno sempre più complesso.
A dimostrazione di questo ci sono in numeri sia di Assogestioni che di ASSORETI che confermano un settore, sano e in crescita, ma con evidenti segnali di rallentamento nei ritmi di crescita.
Gli addetti ai lavori sanno benissimo che questo sarebbe il momento di investire sui mercati finanziari che scontano la situazione geopolitica, l’aumento delle materie prime e il ridimensionamento delle big tech, ma è noto, come la teoria si scontri quasi sempre con la pratica.
A ciò si aggiunga che buona parte del 25% degli italiani che ha investito i propri risparmi si trova con perdite potenziali sui propri investimenti molto spesso a doppia cifra: dunque già fare tenere a costoro le posizioni senza farli scappare dai mercati è impresa improba.
Vi è infine un tema di capacità degli asset manager di creare valore non solo per sé ma anche per i lori clienti finali i cosiddetti end investor.
L’avvento degli ETF e degli investimenti passivi caratterizzati da costi più bassi e spesso da performance superiori a molte gestioni attive la dice lunga su cosa ci aspetterà in un futuro: sopravviveranno pochi gestori capaci, gli altri saranno sostituiti da un algoritmo.
C’è ancora qualcuno che si ostina a non capire perché gli italiani tengano i propri risparmi sui conti correnti?
Nicola Ronchetti