NATURA E LIBERTÀ: ARTISTI TRA GLI ELEMENTI

We Wealth | Marzo 2021

Forse per effetto dei lunghi mesi in semi-clausura, il desiderio e l’immaginario sono inclini a visitare con la mente luoghi aperti dove gli artisti conversano con le forze e forme vive della natura. È un incontro che gli antichi celebravano frequentemente e che ha conosciuto momenti di particolare felicità

Forse per effetto dei lunghi mesi in semi-clausura, il desiderio e l’immaginario sono inclini a visitare con la mente luoghi aperti dove l’arte degli uomini conversa con le forze e forme vive della natura. È un incontro che gli antichi celebravano frequentemente e che ha conosciuto momenti di particolare felicità, a tal punto che il Cinquecento ha coniato l’espressione ‘terza natura’ per descrivere le nozze tra ingegno artistico e acqua, fuoco o terra: incarnate variamente dalle  creazioni anfibie di Bernardo Buontalenti o dalle opere al fuoco di Bernard Palissy.

Sono alcuni decenni che riaffiora questa urgenza di evader dalla pareti stagne di museo e galleria per addentrarsi in spazi meno addomesticati, adatti, più della città, ad accogliere e magari anche esprimere una pulsione profonda che costringe alcuni artisti a misurarsi esteticamente con la materia, l’origine e il cosmo. Giungendo talvolta a qualcosa di più della land art, o perlomeno a una sua versione più radicale. È il caso dello scultore statunitense Walter De Maria (1935-2013) che ha consegnato al deserto del New Mexico il suo pressoché irraggiungibile Lightning Field (commissionato da DIA e ultimato nel 1977): ‘il campo’ di 400 steli metallici – sei metri di altezza e disposti a regolari intervalli di sessansette metri – insegue i dislivelli lievi della pianura per disegnare un rettangolo che si è invitati a osservare da lontano e anche a percorrere in lungo e in largo.

L’opera da contemplare si fa allora esperienza e gesto, e lo spettatore diventa in qualche modo attore nel ‘campo’, che percorre secondo traiettorie che cambiano con la direzione del percorso, l’ora del giorno e il clima del momento. Il dialogo con le condizioni atmosferiche è al cuore di Lighning Field: la visita richiede in effetti una notte nel capanno attiguo, regala la percezione del deserto e del silenzio e, in caso di temporale, la visione elettrizzante dei lampi che si scaricano sulle punte di metallo. È difficile raccontare la poesia estrema di un lavoro che dei fenomeni naturali si fa ‘supporto costruttivo e sensoriale’ (Germano Celant, Domus, giugno 2011); difficile dire a parole un’opera che domanda al suo fruitore presenza fisica, partecipazione, interazione e intimità con il paesaggio. Un’opera quindi irripetibile, inesportabile, incorporata al paesaggio.

In chiave minore, la scossa dell’incontro tra elemento naturale e mano dell’artefice si ritrova nella ‘stanza di terra’ che De Maria ha scelto di collocare a Soho: da più di quarant’anni, The New York Earth Room (1977), le cui quattro mura racchiudono duecento metri cubi di terra bruna e odorosa, accoglie e sconcerta chi sbuca dalla scala stretta e urbana. Il richiamo denso e materico a una ruralità grezza nel bel mezzo del quartiere più salottiero di New York (ma non era così nel 1977) parla di rapporti complicati tra natura e arte, di attrazione e anche di discontinuità.

Per inseguire le tante modulazioni di questi incontri ravvicinati tra arte, technè, cosmo e natura bisognerebbe, tra molti esempi preziosi, passeggiare lungo le strade di Richard Long e contornare i suoi cerchi, avvistare la Spiral Jetty di Robert Smithson nelle acque del grande lago salato in Utah, ricordare le recenti Floating Piers di Christo sul lago d’Iseo, con lo sciabordio dell’acqua sotto i passi e la geometria giallo-arancione del percorso. Allo stesso modo vanno serbati in mente e negli occhi i paesaggi quasi demiurgici che Michael HeizerNancy Holt e James Turrell hanno scavato, scolpito, e plasmato nei deserti dell’Ovest americano. In tutt’altra scala, incuriosice l’idioma ‘astronomico’ usato da Melissa McGill per Constellation(2015-2017) il cui perimetro è disegnato da 17 sottili aste di alluminio di altezza variabile (12-24 metri), alle cui sommità sono collocate luci led a ricarica solare.

La costellazione è stata sistemata su quello che resta di un castello neo-gotico sull’isola di Pollepel, in un tratto ancora rurale del fiume Hudson. Quando giunge la notte, la costellazione si accende, sospesa sulle rovine e sull’acqua, misteriosa, poetica, e forse memore delle cosmogonie degli indiani Lenape che un tempo erano i soli abitanti della regione.

Nel più recente progetto Red Regatta, sempre di Melissa McGill, pittura e memoria giocano con il vento e l’acqua della laguna veneziana. Protagonisti della regata, una cinquantina di imbarcazioni tradizionali (vela al terzo) impreziosite da vele dipinte a mano in altrettante sfumature di rosso intenso e profondo, nel segno cromatico dominante della Serenissima. In quattro occasioni e quattro percorsi, da maggio a ottobre 2019, laguna e canale della Giudecca fecero così da palcoscenico a questi speciali attori corali, mossi dal vento, abili a scivolare silenziosamente e con grazia su onde troppo spesso solcate da navi moleste e incuranti dei danni che recano a città e laguna. Nella sua colorata invasion dell’acqua, la flottiglia rossa richiama, senza bisogno di parole, la fragilità di Venezia e spinge a esplorare forme di fruizione estetica non legata al consumo e attente invece alla interazione e alla conoscenza; con il vento, l’acqua, la memoria del mare e della pittura, Red Regatta ha scritto una sua pagina del dialogo tra artista, elementi e ambiente.

Per chi vive in città in tempi pandemici, sembrano lontani questi incontri tra forze elementari e ingegno umano. Eppure, a passeggiare a Milano con occhio vigile, se ne ritrovano le tracce in molte sculture, pubbliche e non solo. Non sembra forse il Grande Disco di Arnaldo Pomodoro (1972, Piazza Meda) un astro caduto sulla terra da un altro mondo? Se si va a spasso dalle parti del Cimitero Monumentale, La vita infinita di Kengiro Azuma (MU141, 2015), invita a soffermarsi sui rapporti tra pieno e vuoto, tra materia e quello che non lo è.

Ci si potrebbe spingere fino all’Hangar Bicocca dove si è accolti da La sequenza di Fausto Melotti (1981), le cui colonne architettoniche e musicali lasciano intravvedere un dialogo tra elementi ‘immateriali’ e il potente acciaio Coren dell’opera. In un giardino privato di Milano sono di recente giunte due sculture di Gio’ Pomodoro, un artista che spesso ha dialogato con lo spazio cosmico: lo dicono i titoli delle sue sculture, dai Soli agli omaggi a Keplero e a Galileo. Queste nuove presenze milanesi, Guardiano lunare e Lamo(1996), evocano gli astri e l’acqua in una sorta di corpo a corpo con il granito ruvido e il ferro artigianale del tagliapietre: un altro vivo esempio della fatale attrazione tra artisti e elementi, un altro monito a non perdere di vista istanze e urgenze della natura.

Caroline Patey