ESG E’ FINITA LA SBORNIA?

Investire | Febbraio 2023

All’inizio sembrava un sogno: un’intera industria e per di più quella ritenuta – ingiustamente – più cinica e bara come quella della finanza che si converte alla buona causa: ESG.

Negli ultimi anni tutti, chi più, chi meno, hanno voluto rifarsi, per così dire, una verginità innescando una corsa a chi aveva più fondi articolo 9 e 8 in portafoglio.

Oggi improvvisamente sembra che la corsa si sia fermata o meglio si sia fatta meno frenetica. E questo per almeno due motivi.

Il primo è stato il regolatore che per ridurre il fenomeno del green washing ha imposto norme molto più stringenti sui fondi ESG.

Questo ha scatenato una marcia indietro da parte di non poche SGR e una rincorsa a declassare i fondi ex articolo 9 e 8 per prevenire possibili richiami e/o sanzioni che avrebbero potuto causare pericolosi danni all’immagine.  

Il secondo motivo è che dagli Stati Uniti, da sempre anticipatore delle tendenze che poi arrivano anche nel vecchio continente, soffia un vento meno favorevole ai fondi ESG, o meglio, meno favorevole rispetto al passato.

È scoppiata la bolla, finita la moda (ammesso e non concesso che di moda si tratti)?

In realtà gli investimenti ESG, realmente ESG, come tutti i prodotti che rispettano un disciplinare e quindi una Denominazione di Origine Controllata, per arrivare a completa maturazione richiedono tempo, risorse ed energie.

Il paragone con il vino, lungi dal risultare blasfemo, a ben vedere forse è più azzeccato di quello che uno potrebbe pensare a prima vista.

La qualità richiede tempo sia per chi produce un buon vino che per chi gestisce un buon fondo ESG.

Lo stesso vale per la domanda: per i pochi intenditori di un buon vino e per chi sa apprezzare un buon fondo.

A ciò si aggiunga, sempre per restare nella metafora vinicola, l’importanza e il valore della etichetta ESG.

Le tematiche ambientali negli investimenti finanziari – rappresentate dalla fatidica E – essendo ormai del tutto assimilate, per ora ahinoi solo a livello concettuale, risultano poco differenzianti e quindi a grande rischio di omologazione o peggio di scarsa credibilità.

Anche le tematiche relative all’impatto sociale – esemplificate dalla S – se da un lato hanno un valore assoluto e unanimemente condiviso, dall’altro sono più complesse da comprendere realmente.

Per non parlare della G di governance, che pur essendo forse la variabile più omni comprensiva è quella più per addetti ai lavori (molto apprezzata dagli end investor private, criptica per i mass market).

E per finire, nel rapporto rendimento/ESG quanto pesa il numeratore e quanto il denominatore? Ovvero a quanta parte del proprio rendimento un singolo investitore sarebbe disponibile a rinunciare a fronte di un investimento ESG compliant?

La risposta arriva dai mercati soliti ad anticipare le tendenze (USA e UK in primis) ed è chiarissima: quando investe il proprio denaro il singolo individuo vuole ottenere il massimo ritorno economico, certamente non a scapito dell’ambiente, della società e delle regole, ma a tutela del proprio risparmio. 

Riprendendo la metafora del vino ci sono tre alternative: 1) si impara a produrre il “Sassicaia” dei fondi ESG puntando a pochi e fortunati intenditori; 2) si punta a prodotti “Tavernello”, privilegiando la quantità; 3) si diventa astemi.

Forse la sbornia da ESG si sta esaurendo e questo, lungi dal penalizzarli, consentirà al singolo investitore di guardarli con maggior lucidità e apprezzamento.

Nicola Ronchetti