ADVISOR | Ottobre 2022
Le nuove disposizione Mifid II entrate in vigore ad agosto relativamente alle preferenze dei clienti sugli investimenti ESG prevedono domande specifiche volte a misurare l’interesse e la sensibilità dei clienti sulle tematiche che attengono ai fattori ESG.
Dagli studi che FINER conduce periodicamente su questi temi emergono alcune differenze sostanziali negli investitori finali che dovrebbero essere recepite non tanto e non solo dai regolatori, quanto soprattutto dagli intermediari.
Le differenze nell’approccio agli investimenti ESG sono correlate al genere (uomini – donne), alla coorte generazionale di appartenenza (anno di nascita), al livello di istruzione ma anche e soprattutto all’entità del patrimonio.
Le donne e gli under-40 sono mediamente più sensibili agli investimenti che tengono conto dell’impatto sull’ambiente e sulla società così come gli individui con patrimoni finanziari medio bassi (mass market e affluent).
Uomini e over 50 sono più sensibili alle tematiche che riguardano la governance, così come gli individui con patrimoni medio alti (upper affluent, private e HNWI).
La cosa interessante è che le medesime differenze di genere, di età e di entità del portafoglio gestito si trovano anche tra consulenti finanziari e private banker: sembrerebbe dunque vero che chi si somigli si pigli.
Due sono le priorità che l’industria del risparmio gestito e della consulenza finanziaria dovrebbero darsi affinché gli investimenti ESG non siano più visti come un asset class ma come il comune denominatore di ogni investimento.
La prima è quella di contrastare il cosiddetto fenomeno del greenwashing, rendendo chiare e comprensibili anche ai non addetti ai lavori le regole e il livello di adeguamento ai principi ESG.
La seconda è spiegare che gli investimenti ESG meritano un tempo di gestazione e un orizzonte temporale che non può essere confinato nel breve periodo.
Questo è un assist per l’industria del risparmio gestito e della consulenza finanziaria che in Italia, più che in altri paesi della comunità europea, è afflitta da end investor con un orizzonte temporale mediamente inferiore.
Dati alla mano gli italiani investono con un orizzonte temporale mediamente di due anni, i nostri fratelli europei di tre anni e mezzo, quelli anglosassoni, UK e USA, di sei anni.
Certo lo scoppio della guerra al centro dell’Europa favorendo il balzo del costo delle materie prime e innescando una spirale al rialzo per le società produttrici o raffinatrici di idrocarburi fossili, di armamenti e di sistemi di difesa, non ha aiutato le scelte dei gestori che le avevano escluse.
Possiamo ben immaginare la difficoltà di un consulente finanziario che si trovi a giustificare di non aver suggerito un investimento in una società non ESG compliant che però ha fatto un più 15% anno su anno a fronte di investimenti sostenibili caldamente suggeriti che hanno però un rendimento negativo.
Le statistiche ci dicono che ancora una volta il tempo è signore: nel medio lungo periodo gli investimenti in società ESG compliant hanno rendimenti non solo più alti ma anche più stabili e meno volatili.
Stupisce dunque che a fronte di queste differenze ben note agli addetti ai lavori l’offerta non riesca o, forse, non possa differenziare l’approccio propositivo e commerciale a seconda del tipo di cliente.
Magari arriverà un giorno in cui a chiedere investimenti ESG e a pretendere di conoscerne i parametri saranno i clienti, magari.
Nicola Ronchetti